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Bankitalia: cosa è cambiato?

bancaditaliaNelle scorse settimane tutti abbiamo letto della polemica innescata dal decreto legge denominato “IMU-Bankitalia” approvato, dopo un non facile passaggio parlamentare, il 29 gennaio scorso.

Tralasciando l’aspetto parlamentare della vicenda, della quale si è scritto di tutto e di più, cerchiamo insieme di capire cosa si cela dietro il decreto.

Per capire cosa è cambiato è a mio avviso utile conoscere come era la situazione prima del 29 gennaio; facciamo quindi un piccolo ripasso storico.

La Banca d’Italia nasce formalmente con la Legge bancaria del 7 marzo del 1938 (n°141)1 e successive modifiche dello stesso anno. Il processo di riforma bancaria, che in realtà iniziò già nel 1933 con l’istituzione dell’IRI, si pose l’obiettivo di razionalizzare l’ordinamento creditizio dell’epoca, creando un nuovo organismo sul quale accentrare la funzione di controllo sulle aziende del credito (potere ispettivo e direttivo) e, al contempo, ricondurre la proprietà delle banche nell’ambito pubblico.

Nasce così il “nuovo” volto del sistema creditizio italiano che vede la costituzione degli Istituti di credito di diritto pubblico, che avevano una sfera d’azione prevalentemente regionale o interregionale; le Banche ordinarie, casse di risparmio, banche popolari, che erano aziende di competenza regionale, provinciale o interprovinciale; le Casse rurali, operanti nell’ambito comunale.

I tempi della riforma vennero all’epoca dettati dalla crisi dell’impresa, iniziata nel 1929 e allargatasi velocemente al resto d’Europa (e del mondo), che trascinò nel dissesto finanziario la maggior parte degli istituti di credito, i quali avevano concesso finanziamenti al sistema industriale che si rivelò ben presto insolvente.

Tornando alla Legge bancaria, questa fissò il valore del capitale della Banca in 300 mln di lire (una cifra enorme per l’epoca), importo divenuto irrisorio negli anni, rispetto alle dimensioni dei bilanci e delle riserve dell’Istituto.

E così adesso sappiamo da dove viene fuori la cifra di 300 mln di lire di cui abbiamo sentito parlare.

bancaditaliagraficoQuesti soldi vennero versati dagli allora istituti di credito di diritto pubblico.

Altre due date importanti: 1990 quando su iniziativa di Giuliano Amato le banche sono state privatizzate; 1992, anno in cui l’allora Governatore della banca d’Italia vendette le quote dell’Istituto nazionale a privati.

Quindi, ancorché Banca d’Italia abbia mantenuto il suo originale assetto di istituto di diritto pubblico, le quote nominative di partecipazione al suo capitale risultano oggi assegnate per il 94,33% a banche e assicurazioni private, e per il restante 5,66 % a enti pubblici; nel dettaglio, la “foto” al 29 gennaio 2014, vedeva il seguente assetto societario:

Ora, dato che le banche private “azioniste” di Banca d’Italia non hanno formalmente alcun controllo di gestione sulla stessa – controllo che rimane interamente al Tesoro e al Parlamento – per evitare una “anomalia” nel sistema, fin dal 2005 si decise che entro tre anni, le quote in capo a banche e assicurazioni private dovessero essere trasferite allo Stato. Questa scadenza, in concreto, venne poi ignorata.

E arriviamo al 2014 (tralasciando volutamente alcuni tentativi antecedenti di riforma) per approdare al decreto del 29 gennaio 2014, che ha rivalutato il capitale sociale elevandolo da 156.000 euro (i vecchi 300 mln di lire) a 7,5 miliardi di euro; le quote nominative di partecipazione hanno assunto il valore di 25.000 euro ciascuna. La rivalutazione del capitale, ovviamente, incidendo in misura uguale su tutte le quote, ha lasciato invariato il peso relativo delle singole partecipazioni. Ma il decreto dice di più; uno degli effetti è quello di allargare la platea dei partecipanti al capitale della Banca, ponendo un limite massimo alla quota pro capite, pari al 3%; gli azionisti che oggi ne possiedono di più dovranno vendere; ma a chi? Stando a quanto affermato dal Governatore Visco in una nota ripresa da “La Stampa” del 03/02/2014 : << È “molto improbabile” che la Banca d’Italia dovrà intervenire per il riacquisto di quote del capitale in eccesso al termine della redistribuzione su una platea più ampia.>>.

Il secondo effetto, è quello di regolamentare l’attribuzione dei dividendi fra i vari azionisti. Quest’ultimo aspetto, molto tecnico, meriterebbe una trattazione separata.

bancaditaliaviscoMa da dove arrivano i 7,5 mld di euro? Questi soldi erano già iscritti nel bilancio della Banca come fondi di riserva2 (che ammontano a circa 23 mld di euro) e ora entrano nel capitale sociale della stessa al fine di delimitare i diritti dei partecipanti rispetto al 3% fissato. Qualora si fosse scelto di statalizzare l’Istituto, lo Stato avrebbe dovuto sborsare svariati miliardi di euro per riscattare le quote in disponibilità degli azionisti privati. Da notare che, nell’ipotesi (remota) che l’Italia decidesse di tornare alla lira abbandonando l’euro, da oggi l’operazione costerebbe almeno 7,5 mld di euro.

Ma a chi giova questo decreto? Innanzitutto allo Stato che incasserà fra gli  800 mln e 1,2 mld di euro circa come entrate fiscali (tassando l’aumento delle quote azionarie). Questo è il motivo per il quale, il decreto, prende il nome IMU-Bankitalia. Infatti con queste nuove entrate fiscali il Governo coprirà l’abolizione della seconda rata del 2013.

Poi naturalmente questa operazione giova alle banche, perché rafforzano il loro capitale attraverso l’immissione di nuova liquidità, in vista dei nuovi test di vigilanza europei (Basilea 3).

Inoltre, questa operazione sembrerebbe non costare nulla (direttamente) ai contribuenti; a differenza che, per esempio, in Germania dove lo Stato tedesco, dall’inizio della crisi ad oggi  per coprire i buchi del proprio sistema ha investito 60 mld di euro circa in spesa pubblica per la ricapitalizzazione delle proprie banche.  Tuttavia questo punto resta controverso in quanto vi è una corrente di pensiero che afferma che l’operazione, andando ad agire sulle riserve, ridurrebbe la ricchezza nazionale. Inoltre, da sempre, le riserve (ordinarie e straordinarie) sono considerate l’ultimo baluardo di garanzia sulla sostenibilità del debito pubblico.

La vera domanda è: adesso, grazie a questa ennesima immissione di liquidità (da non dimenticare le operazioni di “finanziamento” della BCE), gli istituti di credito privati italiani, saranno in grado di far ripartire il sistema di finanziamento alle imprese e alle famiglie?

Certo è che vi è una enorme aspettativa anche se, di fatto, il decreto non dà nessuna garanzia in tal senso.

 

Articolo di Giovanni Fedele
giovanni.fedele@intesasanpaolo.com

 

 

 

 

 

 

 

 

1 Conversione in legge, con modificazioni, del Regio decreto-legge 12 marzo 1936, n. 375, contenente disposizioni per la difesa del risparmio e per la disciplina della funzione creditizia.

 


mercoledì 5 marzo 2014 - Approfondimenti, Giovanni Fedele -
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