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Il costo del lavoro

08precariCon l’articolo dedicato agli approfondimenti sul funzionamento del FOC e del Fondo di sostegno al reddito, abbiamo voluto non solo chiarire alcuni aspetti pratici relativi al funzionamento degli stessi, con un excursus storico relativo alla loro nascita, ma abbiamo voluto mettere in evidenza come strumenti di cui oggi sentiamo tanto parlare, siano già utilizzati (o utilizzabili) all’interno della nostra categoria. Avendo capito a cosa servono questi strumenti, ritengo utile ripassare qualche nozione generale.

In Italia oggi esistono:

08manager-operai-retribuzioniQueste sono le principali tipologie di contratti di lavoro – più o meno “onerosi” dal punto di vista della fiscalità a carico delle aziende – che è possibile applicare per creare occupazione. Ma evidentemente non bastano se le imprese chiedono alla politica di realizzare una maggiore “flessibilità”, sia in ingresso che in uscita, per creare occupazione, aumentare la competitività e, forse, per continuare a creare precariato (?).

Ora, credo che sarebbe come chiedere ad un carpentiere di avere a sua disposizione una decina di martelli diversi per rendere il proprio lavoro più competitivo, senza stare realmente a domandarsi se quel carpentiere ha del lavoro da fare o meno!

Purtroppo il vero problema è che da più di un decennio, in Italia, la sfida sulla competitività delle aziende si è affrontata non puntando sulla qualità dei prodotti realizzati, sulla capacità di innovare, di sviluppare tecnologie e competenze ma, bensì, giocandosi la partita sul costo del lavoro (vedi salario). Il tutto durante una evoluzione geo-politica che vedeva i mercati europei, compreso quello italiano, aprirsi alla concorrenza dei mercati così detti “emergenti”, che facevano (e fanno) del costo basso del lavoro (e parliamo sempre di salario, mi raccomando) il loro punto di forza. Ricordo qualche tempo addietro come un famoso programma televisivo di satira scopri che alcuni capi di abbigliamento (nello specifico t-shirt) aventi per marchio quello di una famosissima casa automobilistica italiana, simbolo per eccellenza del nostro Paese nel mondo, riportassero sull’etichetta “made in china”. Alla domanda rivolta al Presidente di quel brand, la risposta fu: “si, le facciamo in china, perché la mano d’opera costa meno, ma la stoffa è 100% made in Italy” (e costavano 130 euro l’una !!). Certo che se è questa la soluzione, andiamo bene…

08pressione-fiscale-2012Ma allora, cerchiamo di capire cosa vuol dire “costo del lavoro”. Esso non comprende solo il salario corrisposto ai lavoratori, ma anche i contributi sociali obbligatori da versare a carico dell’imprenditore, i ratei di tredicesima mensilità ed altre mensilità aggiuntive, i ratei del TFR, le ferie e permessi maturati, ed ogni altro importo attinente alla prestazione lavorativa (es. lavoro straordinario) da conteggiare a consuntivo vista la natura non prevedibile dell’evento. Secondo i dati pubblicati dall’Eurostat, mettendo a confronto il costo orario dei paesi dell’Eurozona, il costo orario del lavoro in Italia risulta essere sotto la media europea. A fronte di un costo medio di 28 euro, nel 2012 il costo medio nel nostro paese è stato di 27,4 euro contro i 34 della Francia, i 30 della Germania e i 38 della Danimarca (solo per citarne alcuni). Quindi, l’Italia non rappresenta, in questo senso, una anomalia di eccesso di costo ma, semmai, il contrario. Eppure, si continua ad insistere su questo fronte ricercando, appunto, “nuove” forme contrattuali che determinino (ancora) una riduzione del costo del lavoro (o meglio, del salario). Anzi, a dirla tutta, sembra che piaccia molto, alle più brillanti “menti economiche” di questo paese, pensare che il problema risieda (anche) nell’esistenza stessa dei Contratti Nazionali di categoria (diventati per alcuni fin troppo onerosi). Ma il vero problema invece è – e resta – l’eccessivo peso degli oneri fiscali e contributivi che incidono pesantemente sulla (scarsa) capacità produttiva e relativa competitività delle nostre imprese. Questo fenomeno viene ulteriormente aggravato dal fatto che negli ultimi venti anni, giusto per voler stare nella storia più recente, in Italia si è abbandonata ogni strada di innovazione e sviluppo dei sistemi produttivi e della ricerca, partendo dalle scuole, passando per le università, per giungere – purtroppo – alla fuga dei cervelli all’estero. Lo stesso governatore di Banca d’Italia ha recentemente affermato che il sistema produttivo italiano è indietro (strutturalmente e tecnologicamente) di venticinque anni rispetto ai competitors europei. Pensate che dall’Università di Oxford (UK), giunge notizia che alcuni “nostri” (italiani, intendo) ricercatori di punta che operano all’interno dell’università inglese, riescono a commercializzare svariati brevetti ogni anno, in tutto il mondo, tranne che…in Italia. Le aziende Italiane non cercano innovazione preferendo mantenere un modello industriale a bassa intensità tecnologica. E non dimentichiamoci che l’agenzia governativa italiana per la diffusione delle tecnologie per l’innovazione venne soppressa dal precedente governo Monti (per firma dell’allora ministro Passera), per questioni di budget. Anche questo fa si che il nostro Paese, il cui tessuto produttivo è costituito per la maggior parte da piccole e medie imprese, realizzi produzioni a bassissimo contenuto tecnologico e qualitativo. Ma il problema sembra essere solo il costo del lavoro(lato “stipendi” ovviamente!).

08pop_stipendi--620x420 rotowoodPeccato però che i Italia i salari siano fermi al palo da anni e che crescano mediamente molto meno dell’inflazione. La miopia dell’imprenditoria italiana e della politica è evidente ed imbarazzante. Il tutto calato in un contesto che vede il livello di disoccupazione giovanile fra i più alti degli ultimi trent’anni. Viene affermato da più parti che è necessario defiscalizzare e ridurre gli oneri sul lavoro per quelle imprese che creano occupazione stabile e non precaria, smettendo di “regalare” soldi pubblici alle imprese per creare occupazione che dura, alla meglio, sei mesi. Lo stesso Presidente di Confindustria richiama quasi quotidianamente l’attenzione dei media sulla questione “fiscalità elevata”; Ma quindi cosa fare? Per esempio, oltre naturalmente a pagare (in fretta) i debiti della PA e prima di pensare che il problema degli italiani sia o meno l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, bisognerebbe incentivare il finanziamento del credito alle imprese capaci di trasformare quei prestiti in ricchezza, a quelle imprese sane presenti sul territorio in grado di produrre, a quelle imprese in grado di “creare” lavoro. Ma per far ciò le banche (e le PA) devono smetterla di finanziare sempre le solite aziende (note) già in crisi, magari già con debiti esorbitanti, con gestioni poco chiare e poco trasparenti, che vengono finanziate attraverso incontri privati nei “salotti buoni” e che finiscono, guarda caso, davanti ad un banco di tribunale.

Udite, udite ! Ultime news: Unicredit e IntesaSanpaolo, le due maggiori banche italiane, hanno stanziato 230 milioni per diventare azioniste di una società con 15 dipendenti, la Camfin, riconducibile a Tronchetti Provera: Camfin è malmessa, ha quasi 400 milioni di debiti, e Unicredit e Intesa sono le più esposte. Poi c’è la controllata Prelios (ex Pirelli Real Estate) che ha oltre 500 milioni di debiti, e anche lì Unicredit e Intesa sono inguaiate (fonte: ilfattoquotidiano.it – “Banche, pronto soccorso Tronchetti Provera. Per gli amici i soldi non mancano mai” – 06/06/2013).

Ma allora !!

Bisogna finanziare la ricerca e la formazione, per esempio anche incentivando i “prestiti d’onore” agli studenti meritevoli; bisogna favorire il ricambio generazionale anche obbligando a lasciare le poltrone per sopraggiunti limiti di età; bisogna stabilire un tetto alle retribuzioni dei Top Manager delle aziende, vincolando i loro bonus ai risultati “veri” ottenuti riducendo la forbice fra i loro compensi e quelli dei lavoratori delle aziende nelle quali operano, rendendoli responsabili in solido in caso di danni causati da una cattiva gestione; bisogna ridurre e semplificare drasticamente la burocrazia senza però ridurre i controlli di trasparenza necessari; bisogna integrare i sistemi informativi dei vari enti pubblici per rendere la lotta all’evasione fiscale ancora più incisiva al fine di recuperare nuova liquidità per finanziare la crescita; bisogna ridurre la spesa pubblica “inutile” che non vuol dire necessariamente ridurre i servizi per il cittadino. Per far ciò è indispensabile avere a disposizione una classe politica forte e determinata, pronta a raccogliere la sfida per trasformare questo Paese e per renderlo protagonista del futuro europeo.

Ma forse le beghe politiche sulla conta degli scontrini, sulle questioni interni ai partiti, sulle questioni giudiziarie dei singoli e sul mantenimento del potere personale ci faranno perdere, ancora una volta, il giro di giostra…ma gli italiani, nel frattempo, hanno pagato e continueranno a pagare il biglietto!

Articolo di Giovanni Fedele
giovanni.fedele@intesasanpaolo.com

 

 

 

 

 

 


lunedì 17 giugno 2013 - Approfondimenti, Giovanni Fedele -
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Molto interessante. Un dubbio, però: si dice che il costo del lavoro comprende anche gli oneri contributivi e poi si forniscono i dati del costo orario nell’eurozona. Successivamente si afferma che il vero problema è costituito dall’eccessivo peso degli oneri fiscali e contributivi. Ma quindi non sono compresi nei numeri del costo orario?
La statistica a volte è fuorviante. Se per ipotesi azzerassimo i contributi potremmo migliorare l’indice del costo del lavoro, ma poi ogni lavoratore dovrebbe utilizzare una parte del reddito disponibile per costruirsi una pensione. Cosa che comunque qualcuno già fa in tutta l’eurozona in modo “integrativo”.

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