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INASTRONAVECONME

Non è sempre detto che una risata li seppellirà (chiunque siano i “nemici”), ma certo una buona dose di ironia aiuta a smontare i cultori delle certezze che ci ammorbano quotidianamente.

E quindi ho molto apprezzato l’anonimo collega che all’indomani dell’annuncio della NASA sulla scoperta di nuovi possibili mondi abitati, ha intuito (e rappresentato con un geniale flash) il fremito incontrollato che deve aver attraversato le più fertili menti delle nostra azienda. Da quelle dei vari strateghi del marketing, fino a quelle di qualche entusiasta Direttore di Area.

Tanto più l’ho apprezzato perché l’annuncio della NASA, ma soprattutto i possibili fremiti devastanti che tale annuncio potrebbe scatenare hanno preoccupato anche Michele Serra che ha deciso di scriverci un’“Amaca”.

Ora, è evidente che le preoccupazioni di cui si è occupato il nostro collega sono diverse da quelle di cui scrive Serra. Da una parte la triste quotidianità di una realtà aziendale in cui si è ormai perso il contatto con il reale e dall’altra la tentazione autodistruttiva dell’umanità intera. Diverse, ma non così distanti, alla fine.

C’è un filo che collega l’orrenda banalità dell’ignoranza commerciale e della dittatura del metodo con l’urgenza di (auto)rottamazione che attraversa la società contemporanea. Ed è quello della mancanza di senso. Di senso del reale, appunto, ma anche di senso della prospettiva.

Scrive Serra: “Il mito di Gea Due alimenta l’idea che Gea Uno possa essere freneticamente consumata, come tutto il resto, e poi buttata via come una scarpa vecchia. Meglio sarebbe riscoprire l’arte della manutenzione e della ripulitura, del rammendo e della risuolatura, non per un ripiegamento tirchio e nostalgico (ah, le nostre nonne!), ma al contrario perché la sola vera sfida futurista che ci resta è aggiustare le nostre teste.”

Come non intravvedere che la stessa frenesia sta travagliando la nostra azienda? Il processo di innovazione tecnologica in corso è inarrestabile e bisogna farci i conti anche in banca e molto in fretta. Ne sono assolutamente conscio e anzi ho dedicato molte rassegne stampa a questo argomento (qui 1, 2, 3, 4 esempi) proprio perché tutti iniziassimo a ragionarne. Ma se il problema è noto e condiviso, certo non lo sono le soluzioni.

Le persone sono sempre più propense a utilizzare canali di acquisto di beni e servizi che non prevedano una mobilità fisica e offrano costi inferiori. C’è un progressivo incremento della conoscenza dei meccanismi finanziari da parte della clientela. Gli algoritmi dei programmi automatizzati di gestione finanziaria stanno evolvendo rapidissimamente.

E qual è la risposta aziendale a questi input? La “robotizzazione” dei propri impiegati, delle proprie persone. Che cos’è infatti se non robotizzazione la dittatura del metodo che cancella ogni iniziativa, ogni forma di creatività umana, qualsiasi approccio che coinvolga e responsabilizzi le persone nella ricerca di soluzioni invece che nell’applicazione ottusa di standard? Come se fosse conveniente (e in definitiva possibile) mettere in competizione la persona con la app o l’algoritmo. La persona ha visione, intuito, empatia, capacità di improvvisazione e di creare legami. L’algoritmo ha capacità di calcolo, capacità statistica, standardizzazione, disponibilità illimitata ma distaccata. Le qualità (e i difetti) delle persone e delle macchine sono diversi complementari, non uguali e sovrapponibili.

E allora perché utilizzare le persone come macchine, solo meno efficienti? Perché costringere le persone a rinunciare anch’esse a quello che già le macchine non hanno? Che senso ha costringere i colleghi a tentare di trascinare i clienti in filiale, se poi in filiale vengono trattati nello stesso modo ultrastandardizzato che potrebbero avere comodamente da casa tramite una app?

Non è forse vero che tutti noi, immagino anche gli strateghi aziendali, non sempre scegliamo dove procurarci beni e servizi solo sulla base del costo e della distanza?

Io personalmente sono un grande fruitore di commercio elettronico. Ma se ho bisogno di un consiglio vero, se ho il piacere di confrontarmi con un esperto su qualche aspetto, così come se voglio vedere dal vivo come è fatto un vestito magari un po’ particolare, o ancora se in un bar mi riconoscono e mi “coccolano” o se in un ristorante fanno la pasta come piace a me, allora sono disponibile a fare due passi (o parecchi chilometri) in più e a pagare quel che c’è da pagare. Se invece è tutto uguale, nessuno vuole davvero comunicare (che in primo luogo vuol dire ascoltare) con me, se tutto è precotto, allora me ne sto dietro un computer (o meglio ancora uno smartphone) risparmiando tempo e denaro. Ma attenzione: se scelgo sempre da solo, certamente la mia fidelizzazione diminuisce (io non compro tutto su Amazon, ma di volta in volta sul sito di e-commerce più conveniente o specializzato) e sono meno coinvolgibile in acquisti che non ho già preventivato e ponderato secondo i miei esclusivi criteri (la possibilità di offrirmi consulenze e di farmi apprezzare prodotti a cui non avevo pensato è certamente inferiore di quando mi reco in un negozio reale). In definitiva le possibilità di business per l’azienda si riducono in ampiezza e profondità.

Sembra una banale questione di buon senso, ma non è così. Anche perché, come diceva Manzoni: “Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto per paura del senso comune.”

Se l’azienda non capirà questa fondamentale differenza, allora sarà un bel problema. Per lei e per tutti noi.

 

Articolo di Paolo Barrera
barrera@fisac.net


giovedì 2 marzo 2017 - Organizzazione del Lavoro, Paolo Barrera -
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