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Quale futuro per l’Economia Sociale?

giordanoper-un-economia-socialeQuando parliamo di Economia Sociale possiamo trovarci catapultati a metà strada tra Friburgo e Colonia, a cavallo del periodo tra le due guerre mondiali, oppure tra Assisi e Gubbio per respirare l’aria che, nei secoli dopo la morte di San Francesco d’Assisi, ha stimolato la nascita della cosiddetta Economia Francescana. Non tanto per la critica al primo modello di economia sociale citato, dettata da alcune sue perverse applicazioni in Italia che hanno determinato una sorta di socializzazione delle perdite a fronte della privatizzazione dei profitti (risultato che può essere il frutto di un controllo statale non per forza dirigista), è più opportuno riprendere le dinamiche inclusive del secondo che tanto hanno caratterizzato momenti di crescita diffusa e non solo riferibili a dati macro-economici forse sterili. Poi tutti ricordiamo lo scandalo di fine 2014 sia chiaro, ma vorrei  rimanere in una sfera ideale.

Non intendo esprimermi come operatore di una struttura che serve esclusivamente il settore no-profit anche se, forse involontariamente il mio pensiero può essere mutato durante l’esperienza degli ultimi mesi. Esperienza attraverso la quale ho potuto toccare con mano tante belle realtà, del mondo laico e del mondo religioso, ma non necessariamente o direttamente finalizzate ad una vera strategia di crescita economica.

Mi sono spesso trovato a condividere le riflessioni di chi, durante questi anni di crisi economica e valoriale, ha individuato una regressione nei campi dei diritti, della solidarietà e del senso di comunità in generale, e che ha definito questa regressione di stampo ottocentesco. Da qui l’idea che parte della soluzione si potrebbe proprio trovare in meccanismi virtuosi di quel secolo se non di secoli antecedenti propri dell’Economia Francescana e che sono stati elaborati durante il Medioevo.

giordanokeynesParlo dell’esercizio dell’attività economica che deve essere diretto al “bene comune”, parlo del capitale che non deve rimanere sterile o fermo ma deve “girare” e moltiplicarsi (se non come gli Apostoli almeno come intendeva Keynes), parlo di un circuito che contribuisca a generare posti di lavoro destinati anche alle fasce più deboli e che destina parte dello sforzo produttivo a chi non può  partecipare al lavoro (anziani, malati, disabili e giovani studenti) e perché no, parlo di  città vivibili dove tutti possano sentirsi liberi grazie ad infrastrutture accessibili a chiunque.  Nel corso dell’Ottocento tali obiettivi sono stati al centro dell’attività dei Sindacati e delle Società mutualistiche, ed anzi nè hanno costituto la stessa ragion d’essere. Se i primi furono determinati  a costruire coscienza e rivendicazione, le seconde hanno contribuito partecipando direttamente allo sviluppo economico della società. Volendo si  potrebbe anche pensare ai Kibbutz,  ma forse è più opportuno soffermarsi su qualcosa che nel nostro ordinamento trova già un suo spazio e un sistema legislativo di promozione e di tutela. Sistema che effettivamente nel secondo Dopoguerra ha contribuito alla crescita e al benessere diffuso in numerose zone d’Italia, e che consente oggi  di mantenere all’interno del circuito lavorativo tanti soggetti che diversamente avrebbero difficoltà.

Ciò nonostante, anche un sottoinsieme virtuoso può risentire dei fattori a lui esterni ma drammaticamente interni all’insieme.

giordanosanfrancescoLo Stato ha esternalizzato tanti lavori che vengono affidati agli operatori del sociale ed effettivamente questo permette a soggetti  anche svantaggiati di essere inseriti nel mondo del lavoro. Ma questo ci porta subito ad una considerazione e ad una domanda. La considerazione è banalmente che alla fine, se non investe lo Stato (perché questi servizi vengono svolti massicciamente come pubblici appalti) non investe quasi nessuno e la domanda è, lo Stato (noi) ci risparmia veramente? Probabilmente sì e questo anche grazie a una politica retributiva più contenuta. La crisi impone chiaramente una serie di sacrifici ma se questi non vengono riconosciuti e ammorbiditi rischia di venire meno la socialità dell’impianto. Nei confronti degli operatori più deboli devono essere posti in essere dei correttivi che possano trascinare altri settori, nell’ambito della previdenza, della formazione e del sostegno in generale e dell’accesso al credito. Così come deve essere favorito il sentire sociale dell’impresa favorendo le realtà dove non ci sia una disparità eccessiva di retribuzione tra dirigenti e il resto degli operatori.

L’economia sociale, se ben sviluppata e se tenuta lontana dalle mere logiche di profitto può far crescere quei territori che sentono di più la crisi o che sfortunatamente non hanno mai vissuto troppo la crescita. Certo dobbiamo pensare a quelle attività dove l’elemento sociale è visibile a occhio nudo e non solo dopo un’attenta analisi dello Statuto Societario ma paradossalmente in un’epoca di crisi anche di valori si sprigionano tante energie di singoli o piccoli gruppi che scoprono la voglia di darsi da fare e la giusta analisi può evitare che tanti entusiasmi vengano stroncati sul nascere.

giordanodelors-jacquesLe Istituzioni dovrebbero farsi carico di creare delle Agorà dove far incontrare nuove e vecchie imprese sociali e stimolare nuove camere di collaborazione anziché di concorrenza in maniera che addetti e utenza si sentano non controparti ma elementi complementari. E la finanza potrebbe ipotizzare nuovi strumenti finanziari, di credito e di investimento che, approfittando di una fase di rendimenti prossimi allo zero permettano di  finanziare il Terzo Settore. Penso eventualmente a cartolarizzazioni di finanziamenti esistenti con nuove obbligazioni finalizzate a fondi di garanzia e a  plafond di nuovi finanziamenti. Penso a uno sviluppo controllato e gestito delle piattaforme di Crowfunding e penso a uno sforzo europeo di sinergie tra le imprese sociali europee Printattualizzando  il filo del discorso nato dal Libro Bianco di Delors. Magari partendo dalla grande questione dei nostri tempi ovvero l’immigrazione. Su questo dobbiamo essere chiari. I professionisti della povertà esistono ma esistono anche realtà che tanto stanno facendo senza quei ritorni economici che sono appannaggio dei soliti noti. Non penso a cooperative di lavoro di immigrati che favorirebbero principalmente lavoro sottopagato. Penso a una politica comune di accoglienza che costerebbe forse meno che lasciare il problema a due o tre paesi e che potrebbe stimolare nuove energie, economiche, sociali e culturali.

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giordanoArticolo di Massimiliano Giordano
massimiliano.giordano@bancaprossima.com

 

 

 

 


lunedì 10 ottobre 2016 - Banca Prossima, Massimiliano Giordano -
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